Tre monaci Ramia al Villaggio della Gioia

Come molti di voi già sapranno grazie alla notizia pubblicata sul sito ufficiale di Anima Universale, nel 2009 è uscita la seconda edizione del libro sulla vita del nostro grande amico padre Fulgenzio, che ho scritto con l'aiuto di ramia Osvaldo e di ramia Mauro.
Qui a fianco potete vedere la stupenda copertina del volume realizzata da ramia Riccardo, la cui geniale creatività ha espresso negli anni numerose perle grafiche a beneficio del Villaggio della Gioia (potete ammirarle cliccando: Cosa abbiamo realizzato per il Villaggio della Gioia).

Leggendo la notizia della pubblicazione della seconda edizione del nostro libro alcune persone mi hanno chiesto notizie sul suo contenuto.
Ho pensato di trascrivere in questo mio diario alcune pagine che raccontano la missione di noi Ramia al Villaggio della Gioia.
Quest'oasi di amore sorge alcuni chilometri a nord di Dar Es Salaam, in Tanzania, e ad oggi è la casa di 104 bambini che chiamano padre Fulgenzio "baba" ("Papà" in lingua Swahili).

Ebbene... questi bambini meravigliosi e fortunati sono figli anche della grande famiglia di Anima Universale, che negli anni ha sostenuto enormemente un Villaggio che oggi costituisce un fiore all'occhiello per l'intera Africa. Se vorrete seguirmi in un viaggio lungo alcune puntate, ne saprete un po' di più.
Buona lettura.



3 gennaio 2004 (testo tratto dal nostro libro "Il Villaggio della Gioia, appunti di vita del Fondatore Baba Fulgenzio")

Mancano pochi giorni all’inaugurazione del Villaggio, prevista per domenica 11 gennaio, e a Dar cominciano a giungere quanti vogliono essere presenti ad un evento che si preannuncia veramente straordinario.
Padre Fulgenzio accoglie tutti a braccia aperte, godendosi in particolare il calore fraterno con cui lo avvolgono don Aurelio e don Leone, i suoi «due Don», come lui li chiama affettuosamente, che arrivano in Tanzania accompagnati da un vivace gruppetto di parrocchiani.
Padre Fulgenzio ha invitato anche noi di Anima Universale a presenziare all’inaugurazione. Siamo in tre, monaci ramia, a partire verso il Villaggio della Gioia in rappresentanza di tutti coloro che formano la grande famiglia di Anima Universale: tanti cuori che dall’Italia e dall’estero sostengono l’opera di padre Fulgenzio.
Il 3 Gennaio alle sette del mattino ci imbarchiamo all’aeroporto di Torino-Caselle sul volo diretto ad Amsterdam. Qui, dopo una breve sosta, decolliamo in direzione Dar, per una tratta di oltre dieci ore e mezza passate pregustando l’imminente «prima volta in Africa» che tutti e tre ci apprestiamo a vivere. Non vediamo l’ora di abbracciare baba Fulgenzio e di farci guidare da lui a visitare la sua «creatura».

Atterriamo a Dar alle undici di sera e, non appena ritirati i bagagli, ci affacciamo sulla città. Subito veniamo colti da una ventata di aria africana che ancora riscalda la serata, facendoci presagire la calura dell’indomani. Un taxista ci conduce sino a Mikoceni, la casa dei passionisti posizionata a nord della metropoli, e quando giungiamo al cancello è padre Fulgenzio, ancora in piedi dopo la mezzanotte, a venirci incontro per un caloroso benvenuto.
Ormai è tardi e l’indomani ci attende una intensissima giornata; non c’è spazio per molte parole anche perché la stanchezza è tanta e non vediamo l’ora di poter andare a riposare.
Padre Fulgenzio se ne accorge e ci accompagna ai nostri alloggi, nell’ala laterale della piccola ma capiente struttura.
Nella prima nostra notte africana il sonno tarda ad arrivare, respinto dalle emozioni che insistentemente rimbalzano in una miriade di pensieri.

Il risveglio è accompagnato dal caldo sole africano che filtra dalle finestre; c’è elettricità nell’aria e già siamo proiettati verso quella prima giornata tutta da scoprire.
Abbiamo giusto il tempo di fraternizzare con i gruppi di volontari che ci hanno preceduti di qualche giorno e poi via, tutti verso il Villaggio.




Per raggiungere la «Città della gioia», come la chiama il Cardinale Pengo, bisogna portarsi venticinque chilometri a nord di Dar, accanto al poverissimo villaggio di pescatori di Mbweni, e così non perdiamo tempo nel salire in jeep con padre Fulgenzio.
Lasciando Mikoceni alle nostre spalle imbocchiamo la New Bagamoyo Road, nuovissima strada asfaltata che collega Dar con lo storico centro di raccolta e smistamento schiavi di Bagamoyo, e a fatica tratteniamo l’impazienza di giungere al Villaggio.

Dal finestrino della Jeep di padre Fulgenzio, abile guidatore, osserviamo il brulicare di vita che anima i bordi della strada.
Viaggiamo tra due ali di gente che cammina sul ciglio asfaltato, sosta di fronte ad improvvisate bancarelle, esce da fatiscenti abitazioni.

D’un tratto, su un piccolo spiazzo tra due capanne intravediamo un adulto chinarsi verso un bambino, che con una mano gli tocca il capo.
Padre Fulgenzio ci spiega il significato di quel gesto:
In Tanzania c’è un rito praticato dai bambini, che quando incontrano un adulto gli pongono la mano sul capo ripetendo più volte Shikamoo che significa: «Sono ai tuoi piedi».
Il grande risponde allora Marahaba, ovvero «Ne sono felicissimo», e per lasciarsi sfiorare la testa si abbassa al livello del piccolo, ridimensionandosi.
La capacità di ridimensionarsi, ovvero saper rinunciare a qualcosa di sé per stabilire un rapporto con il prossimo, è un valore ben radicato nei popoli africani; sarebbe proprio auspicabile che questa capacità fosse un patrimonio generalmente più diffuso in ogni contesto sociale, perché il saper ridimensionare se stessi è il presupposto indispensabile per avvicinarsi agli altri, per comunicare senza giudicare.





Una ventina di minuti dopo essere partiti da Mikoceni, lasciamo la New Bagamoyo Road e ci immettiamo in una strada polverosa e piena di buche, che come un lunghissimo serpente aggira maestosi Baobab addentrandosi in un’area aperta; padre Fulgenzio ci spiega che stiamo attraversando la zona che costituirà la futura meta abitativa di centinaia di migliaia di persone. Qui è infatti programmata l’espansione urbana di Dar.

D’un tratto giungiamo in prossimità del Villaggio. Scorgiamo davanti a noi un cancello giallo che permette l’accesso al complesso di Santa Maria Nascente, costituito da un ospedale e una scuola materna; poi, finalmente, vediamo un cancello blu fiancheggiato da un muretto sul quale campeggia una scritta multicolore di benvenuto, in tre lingue, disegnata tra alcune nuvolette: «Villaggio della Gioia – Kijiji cha Furaha – Village of Joy». Siamo arrivati.


Mettendo piede a terra proviamo emozioni forti, per un Villaggio che intorno a noi si apre in tutte le direzioni, con tante opere già concluse, o ben avviate, ed in generale una sensazione di grandezza che supera le nostre aspettative.
Il tempo di capacitarci che siamo veramente lì, nel cuore dell’opera ideata da padre Fulgenzio, e subito ci avviciniamo alla chiesa: l’inizio della Messa domenicale incombe.


Di lì a poco, note di festa, per una liturgia improntata alla gioiosa semplicità. Due lunghe file di bambini affiancati danzano all’unisono, e percorrono il corridoio centrale. I più piccoli sono davanti a scandire il ritmo, fendendo l’aria con sublime armonia, disegnando una danza che inneggia alla vita.
L’impatto con quel concentrato di allegria e compostezza è di quelli che toglie il fiato.


Intorno a noi osserviamo volti di uomini e donne colmi di gratitudine, letizia e devozione. Un’atmosfera unica ci avvolge, facendoci sentire veramente nella casa della gioia; ancora di più capiamo come questa parola non poteva certo mancare nel nome che padre Fulgenzio ha scelto per il Villaggio.
La semplice limpidezza d’animo che traspare dai presenti ci sembra proprio l’inno di lode più bello che si possa levare al Cielo, e poi il coro: i canti sono momenti di grande partecipazione, di coinvolgimento, di preghiera che si esprime in melodie tambureggianti, in note che incidono il cuore.

Dopo la messa, la giornata è un susseguirsi di immagini, esperienze, chiacchierate; don Aurelio e don Leone ci fanno da anfitrioni e assieme a padre Fulgenzio ci guidano ad una prima sommaria perlustrazione del Villaggio, conducendoci a visitare l’ostello, le case-famiglia ed i magazzini.
Intanto il nostro gruppo, comprendente anche la folta schiera di parrocchiani di alcuni paesi della bergamasca, è preso di mira dal piccolo Baraka, bimbo vivacissimo sempre disposto al sorriso; è proprio irresistibile quel suo viso simpatico, nel quale risaltano due occhioni che paiono due perle. Per lui ogni attimo è buono per inscenare siparietti esilaranti che trascinano all’allegria tutti i presenti.


In quelle prime ore africane abbiamo potuto cogliere la bellissima musicalità della parlata Swahili, che oltre a caratterizzare gli splendidi canti dà un tocco musicale anche alle frasi del linguaggio comune. Padre Fulgenzio ci spiega che è la lingua dell’intera Africa orientale, dunque una delle più parlate al mondo, frutto dell’unione tra le lingue africane arcaiche e l’arabo.
"Nella lingua Swahili non esiste il verbo avere – ci racconta padre Fulgenzio – esiste solo il verbo essere: essere per, essere con, essere insieme a, essere in compagnia di, essere amato da, servire da, condividere per, condividere con.
Per un africano il senso dell’esistenza è il condividere con il gruppo; tutto il resto viene di conseguenza"
.
Ma come? Ci guardiamo stupiti e ci chiediamo come un africano possa pensare, parlare e vivere, senza neanche concepire il concetto di possesso; eppure padre Fulgenzio continua spiegandoci che si tratta di una cosa naturale per chi è abituato, per poter sopravvivere, a far leva sul gruppo, sulla solidarietà.
È inevitabile che di fronte a questo modo di pensare la nostra mentalità venga colta impreparata; agli occhi della società imperniata sul capitalismo non possono che apparire come «extraterrestri» quelle persone che riescono a vivere con una semplicità imbarazzante, senza porsi il problema di possedere.

Nel pomeriggio c’è tempo anche per una veloce visita a Dar; attraversiamo quartieri gremiti di gente, sfiorando rudimentali banchi di frutta, schivando mezzi pubblici stracarichi di passeggeri, fiancheggiando pericolanti baracche e piccoli mercatini. Poi, d’improvviso, ci troviamo in una zona totalmente diversa, con tanto di banche e palazzi degni di una città europea.
Sono le contraddizioni dell’Africa.
Le parole di padre Fulgenzio ci raccontano di una terra lacerata anche dal contrasto tra tradizione e modernità.
Tornando a Mikoceni per la cena, come in un film riviviamo le sorprendenti emozioni della giornata; chissà quante altre ne verranno nei prossimi giorni!


Il giorno seguente padre Fulgenzio decide di accompagnarci a Veyula, sugli altipiani interni a ridosso della Rift Valley, per visitare la casa madre dei passionisti. Alle quattro della notte, anticipando la pur precoce alba africana, siamo in nove a salire in un furgoncino guidato da Andrea Pannocchia, mentre ci precede il «fuoristrada dei Don», con p.Francesco, don Leone, l’attivissima Rosaria e padre Fulgenzio.


Nei racconti avventurosi che si rispettino non può mancare il pathos della scoperta o dell’improvviso spavento che ti fa saltare il cuore in gola. Così sarà anche per noi in quel memorabile viaggio, una quindicina d’ore trascorse tra intoppi imprevisti e scenari maestosi...



Chilometro dopo chilometro saliamo il dolce pendio che dalla costa ci porta verso l’interno, fin quando perdiamo di vista il gippone dei don, che ci ha staccato a causa dei nostri ripetuti rallentamenti, doverosi omaggi alle meraviglie naturali che numerose si dispiegano davanti ai nostri occhi.




In quel mentre, una spia improvvisamente si accende sul cruscotto del furgone, e i fumi di vapore che si alzano dal cofano spezzano l’incanto nel quale eravamo immersi. Appena svanita la sorpresa, la preoccupazione repentinamente si fa spazio a disturbare i nostri pensieri: la poca acqua rimasta nel radiatore è in ebollizione. Siamo costretti a fermarci.
È una situazione tutt’altro che simpatica, visto che ci troviamo in pieno entroterra tanzaniano, dove l’acqua non è una risorsa facilmente reperibile. Al mattino avevamo sistemato la scorta idrica nel bagagliaio del fuoristrada che ora ci precede; il problema è che i nostri compagni di viaggio sono parecchio più avanti e non abbiamo modo di avvisarli.
Il telefonino, moderna risposta tecnologica ad ogni necessità di comunicazione, qui è inservibile.
D’un tratto, sbuca dalla boscaglia un ragazzino che viene rapidamente verso di noi, mulinando vorticosamente l’unico pedale di una sgangherata bicicletta. L’altro suo piede è posizionato sul telaio, pronto ad appoggiarsi sulla ruota posteriore a mo’ di freno.
Poche concitate parole in swahili con Andrea, il nostro capo spedizione, e subito il giovane salta nuovamente sul rabberciato velocipede, allontanandosi nella stessa direzione dalla quale era venuto, alla ricerca della preziosa acqua necessaria per «dissetare» il nostro radiatore in panne.

I minuti trascorrono lenti, ed un po’ alla volta ci rendiamo conto di un problema che si prospetta di tutt’altro che facile soluzione: la strada è una striscia isolata in mezzo al silenzio.
Mentre cerchiamo di ingannare l’attesa, sulla linea dell’orizzonte intravediamo qualcuno che sta venendo verso di noi. Procede con un passo talmente spedito che nel volgere di pochi attimi riusciamo prima a distinguerne a malapena la figura, poi capiamo che è un masai, e subito dopo ce lo troviamo già lì a parlare con fare risoluto insieme ad Andrea. È un uomo avanti negli anni, dalle rughe pronunciate che ne scalfiscono il volto… ma intatta è la forza che cogliamo dalla decisione di gesti e parole, peraltro a noi incomprensibili.
Intanto, torna anche il bambino con la bicicletta sulla quale, non si sa come, riesce a far stare in equilibrio un recipiente che non esita a porci, soddisfatto e sorridente. Solo che… una smorfia di disappunto si dipinge sul volto di Andrea, e noi diventiamo partecipi del suo stato d’animo quando ci avviciniamo fino a vedere il contenuto: c’è una fanghiglia melmosa, piena di residui vegetali che, se messa nel radiatore, di certo ne decreterebbe istantaneamente una morte senza appello. Quando ancora Andrea sta spiegando al ragazzino l’impossibilità di utilizzare quel liquido fangoso, interviene il masai che ne ingurgita una abbondante sorsata. Con aria soddisfatta sostiene che poiché lo beve lui, lo può «bere» anche la macchina.
Usciamo finalmente dall’impasse soltanto quando la sagoma di un grosso camion si staglia in lontananza. Il conducente ci regala una piccola tanica d’acqua e così possiamo ripartire, non prima di aver sentitamente ringraziato quel ragazzino che ci saluta con un sorriso. Il viandante masai, invece, sale con noi nel furgone per alcuni chilometri, raggiungendo in anticipo il villaggio nel quale altrimenti sarebbe giunto all’imbrunire.

Come stride il contrasto tra la calma ed i tempi lunghi del mondo africano, e le ansie frenetiche della società consumistica. Abituati alla fretta a tutti i costi, era bastato un piccolo contrattempo a metterci in crisi. In quegli interminabili quarti d’ora nei quali ci eravamo ritrovati appiedati, senza immediate soluzioni a portata di mano, eravamo stati costretti ad adeguarci ad un presente che ci coglieva impreparati, perché serbava in sé l’austero sapore di un passato ormai lontano dalle nostre abituali comodità. Avevamo sperimentato un «assaggio» di realtà africana; dal cuore ci scaturiva un senso di amarezza misto a rispetto… quel rispetto che purtroppo manca nei tanti interessati contatti tra la società occidentale e quella africana.

Risaliti nel furgone Andrea ci parla dei masai, il popolo leggendario di pastori che ancora vivono nelle steppe tra Kenya e Tanzania. Molti di loro non accetterebbero mai un passaggio: pur se in parte toccati anch’essi dal progresso, sono ancora uomini di altri tempi, non più temuti come invincibili guerrieri ma a tutt’oggi rispettati ed ammirati per l’innata fierezza.
Andrea ci racconta come questo sia un popolo letteralmente falcidiato da malattie legate proprio all’usanza di bere di tutto, anche acqua sporca. I masai sono infatti ferrei nel rispettare i propri principi, e quindi mai scavano pozzi, né del resto praticano l’agricoltura, perché considerano necessario rispettare la terra evitando di «ferirla» con scavi o coltivazioni. Amano immensamente gli spazi aperti nei quali riescono a percorrere a piedi distanze inimmaginabili, e a queste parole ci ritorna in mente un brano letto alcuni mesi prima. Spiegava che i masai sono animati da un senso della libertà così prepotente da non poter essere tenuti a lungo in prigione, altrimenti vi morirebbero nel giro di poco tempo; per questo i reati da loro commessi sono puniti con ammende, ma non con il carcere. È un bisogno di libertà riconoscibile anche nell’anziano viandante masai che abbiamo appena salutato: ha sicuramente camminato per ore ed ore con l’unica compagnia delle sconfinate distese africane.

Comunque, le vicissitudini non sono ancora finite. Raggiunta la jeep dei don che ci stavano aspettando, non facciamo a tempo a riprendere il viaggio che un botto terribile ci fa sobbalzare il cuore. Proprio in prossimità di un piccolo villaggio, formato da qualche decina di capanne di fango, un pneumatico posteriore del nostro furgone si disintegra in mille frammenti con un fragore che assomiglia ad un colpo di cannone. Quella che per noi è una disdetta, è invece motivo di festa grande per una frotta di ragazzi che si precipita verso la nostra comitiva, ridendo e gridando di gioia.
Ancora frastornati a causa dell’imprevisto, ci guardiamo sbigottiti di fronte a tanto inspiegabile entusiasmo, ma poi ne comprendiamo la ragione: i bambini che correndo a perdifiato sono arrivati per primi, si accaparrano i pezzi di gomma più grandi e se li sistemano ai piedi a mo’ di suole, fissandole con alcune rozze corde di fibra vegetale. È l’«arte» della sopravvivenza, affinata da giovani che sanno di dover cogliere il massimo da ogni situazione; solo così possono sperare di vincere la quotidiana lotta che qui è necessario condurre per poter continuare a vivere.


Arrivo a Veyula, la Casa Madre dell'Ordine passionista in Africa.
Dopo un rifocillante spuntino consumato al centro di uno sconfinato altopiano, pian piano ci avviciniamo alla sospirata meta.
Che meraviglia! Dalla strada, che dolcemente fende il fianco di un’altura sopraelevata sulla pianura circostante, ci alziamo tanto da poter scorgere un’inimmaginabile distesa di baobab, che si perde a vista d’occhio: piante gigantesche ci appaiono come minuscoli funghi posizionati in simmetrica armonia.

L’aria è così tersa che vediamo con nitidezza anche quelli da noi lontanissimi, fin quando si confondono con la linea dell’orizzonte; sembrano l’ordinata peluria di un grande, abnorme volto: è lo stupendo viso dell’Africa che continua a sorprenderci con le sue incantevoli bellezze.
La missione di Veyula è proprio un gioiello; l’altitudine sul livello del mare ne mitiga il clima, rendendola luogo di agognato ristoro per il nostro gruppo di estasiati ma stanchi viaggiatori; dopo un percorso durato quasi un giorno intero, i missionari residenti nella casa madre ci vengono incontro a darci un benvenuto speciale: ci offrono infatti la fresca acqua della missione, ed il sapore è semplicemente fantastico!

Abbiamo la gioia di soggiornare nel centro missionario di Veyula per due giorni molto intensi, nei quali padre Fulgenzio ci porta a visitare la St.Gabriel Technical School e gli altri edifici della missione, che con i suoi servizi sociali funge da punto di riferimento per la popolazione dell’intera area circostante.
Camminando al suo fianco, siamo investiti dall’ondata di entusiasmo che, come una spontanea «ola», si mette in moto alla vista della bianca barba del Baba. Lui percorre con passo spedito gli ordinati vialetti della grande struttura, guidandoci a visitare i vari luoghi di studio e di lavoro.
...Siamo a Veyula soltanto da poche ore, eppure in ogni incontro respiriamo un clima di familiarità che ci conquista: da tutti riceviamo larghi sorrisi che ci riempiono il cuore...

A più riprese padre Fulgenzio incontra gruppi di giovani che corrono ad abbracciarlo e lui, immerso in maniera quasi estatica in questa dimensione di affetto, ha una parola e un’attenzione per tutti; di ognuno conosce dettagliatamente la vita, i problemi, le aspirazioni.
Quando mai la paternità potrebbe essere vissuta in maniera più intensa di quanto sta assaporando padre Fulgenzio?
Come non bastasse, ci sono altri dodici figli dell’amore che si stanno preparando ad incontrarlo: in quegli stessi momenti infatti ad Arusha, ai piedi del Kilimangiaro, stanno andando a dormire i bambini che l’indomani si metteranno in viaggio per raggiungere il Villaggio della Gioia.

Inizia il 7 gennaio, giorno tanto atteso che vedrà il Villaggio della Gioia accogliere i suoi pimi figli.
Partiamo in piena notte da Veyula, per un viaggio di ritorno verso la costa che si svolge in maniera completamente diversa rispetto all’andata. Le prime luci dell’alba ci accolgono quando già ormai gran parte del percorso è alle spalle.
Stiamo facendo la strada che dall’entroterra scende lentamente verso la costa. Inevitabilmente la nostra mente va a ritroso nel tempo, fino agli angosciosi giorni nei quali gli schiavi erano costretti a fare lo stesso tragitto in direzione Bagamoyo, luogo maledetto che segnava il loro drammatico futuro.

Il volto di padre Fulgenzio si rattrista quando comincia a parlarci dell’orrore della schiavitù, che in questa regione ha distrutto la vita di milioni di africani. Tutto ebbe inizio nell’VIII secolo d.C. con una migrazione di mercanti ed artigiani arabi verso le coste del Tanganika e di Zanzibar. Cominciò così l’epoca della tratta degli schiavi, un commercio che consentiva notevoli profitti e per il quale l’entroterra africano forniva «materiale umano» in abbondanza. Dar es Salaam divenne la roccaforte che gli arabi insediarono nella costa del Tanganika, punto di partenza dei traffici di mercanzia umana verso l’Arabia ed il Medio Oriente. Dopo che per alcuni secoli questo squallido commercio era rimasto circoscritto tra Africa e mondo arabo, gli europei irruppero sulla scena: l’impatto fu tremendo.
Nel XVI secolo il Continente americano, da poco scoperto, richiedeva manodopera per le grandi piantagioni e i navigatori portoghesi, che circumnavigavano l’Africa per raggiungere l’India a fini commerciali, fiutarono subito l’affare: i popoli neri costituivano un immenso «serbatoio» di braccia robuste a buon mercato, e il fiorente traffico di schiavi gestito dagli arabi era la prova evidente che la «merce umana» poteva essere molto più redditizia delle altre mercanzie.

Sull’esempio dei portoghesi, in breve altri paesi europei fiutarono il macabro affare, e insediarono in tutta l’Africa occidentale dei punti di imbarco battenti bandiera inglese, danese, olandese, spagnola e francese, in una spirale perversa che subito crebbe a dismisura, istituendo una infame deportazione di massa verso il Nuovo Mondo. Erano interminabili le schiere di africani incatenati, convogliati in vere e proprie processioni del dolore, che si snodavano dal lago Tanganika fino alla costa: centinaia di chilometri di suolo africano sui quali si inscenava l’orrendo crimine della soppressione della dignità umana.
Gli schiavisti impiegavano circa due mesi e mezzo per completare questo sacrilego misfatto, nel quale sottoponevano il loro carico umano ad ogni sorta di angheria.
Come sinistra rimembranza ancor’oggi sul ciglio della strada sono talvolta visibili dei boschetti di mango piantati appositamente dai trafficanti negrieri; erano le dispense naturali che servivano per sfamare gli schiavi. Venivano posizionate ogni dodici miglia, distanza normalmente coperta in un giorno di marcia.
Ascoltiamo attoniti padre Fulgenzio, che ci trasferisce una profonda sofferenza al pensiero delle innumerevoli storie di uomini e donne strappati dai propri cari, costretti a lasciare la propria terra con destinazione Nuovo Mondo e obbligati ad affrontare un viaggio oceanico fatale per molti a causa di stenti, malattie e torture.

Per molto tempo restiamo immersi nelle nostre amare riflessioni finché la voce di Andrea rompe il silenzio facendoci notare gli immensi campi assolati dove distese di agave si perdono all’orizzonte. Ci spiega che da questa pianta si ricava una resistentissima fibra naturale, la cui produzione ha un consistente peso nella fragile economia tanzaniana. Guardiamo le coltivazioni che si estendono a perdita d’occhio, e ci troviamo a sperare che quella risorsa locale continui a reggere la concorrenza delle fibre sintetiche, anche se sinceramente non sappiamo fino a quando le interessate politiche del «Primo Mondo» lo consentiranno.




Il tempo corre veloce ed i successivi chilometri, fino alla casa passionista di Dar, volano in un batter d’occhio. Tanta è l’attesa per l’arrivo dei bambini, che già siamo tutti proiettati verso quell’evento storico previsto per le prime ore del pomeriggio.




Il pranzo a Mikoceni si svolge in tempi ridottissimi.
Baba Fulgenzio freme all’inverosimile per poter essere subito al Villaggio. Noi lo seguiamo salendo con lui nel fuoristrada mentre don Leone va ad aspettare i bambini e le suore alla stazione.

"Sarà un pomeriggio da consegnare alla storia" − dice padre Fulgenzio − "e ci tengo proprio che voi di Anima Universale, con telecamera e macchine fotografiche, possiate immortalare ogni momento".
Messosi alla guida, padre Fulgenzio ci «costringe» ad una nuova toccante immersione nel suo cuore.
La sua voce cattura la nostra attenzione, trasmettendoci storie di vita vissuta, aneddoti, lampi di grande umanità.
Ad un certo punto il suo impeto si affievolisce un po’: ormai siamo vicini al cancello del Kijiji cha Furaha e quella sua breve pausa di riflessione ci fa comprendere che con i suoi pensieri lui è già entrato.
Trascorrono veloci alcuni altri minuti e finalmente parcheggiamo all’interno del Villaggio.

Le ore trascorrono lente: passano le tre, poi le quattro del pomeriggio, ma i bambini non arrivano e di loro non si hanno notizie. Fin quando don Leone, in attesa alla stazione, finalmente li vede sopraggiungere e così racconta:
"Attesi, giungono i primi bambini ospiti che, con due suore passioniste, aprono la prima casa-famiglia. Li accogliamo nella caotica stazione dei bus, dopo un viaggio di mille kilometri, stanchi ma sorridenti. Scendono da un bus dove la lista dei passeggeri sembra interminabile, le valigie ammassate sul tetto, in mano quanto basterebbe per un mercato del mercoledì in generi di varia natura".


È già sera e l’ingresso al Villaggio rasenta la semplicità provocante: ciascuno ha per mano un bambino, scrutando nei grandi occhi nascosti nel buio dei volti i sentimenti che emergono.




«Karibuni», benvenuti; non conosciamo che pochissime parole in swahili, ma in fondo neanche servirebbero.
A parlare è il linguaggio del cuore, che i presenti esprimono in improvvisati canti di giubilo, sorrisi, volti radiosi di felicità.
Noi adulti sembriamo i bambini, tanto è l’entusiasmo, il frastuono e l’allegria mescolata a lacrime di commozione nell’accogliere quei fanciulli.


Un gruppo di volontari e le suore di Santa Gemma si attivano prontamente in cucina per preparare una cena che consenta ai dodici piccoli e alle tre suore passioniste di rifocillarsi.
Nel giro di mezz’ora eccoli seduti ai tavoli dell’ostello, per consumare la loro prima cena al Villaggio.
Suor Isabel e le sue consorelle accudiscono i più piccoli, imboccandoli per farli mangiare, mentre i più grandicelli già si arrangiano, soddisfatti della loro indipendenza. Hanno occhi vivacissimi, dai quali tracima una meravigliata gioia.



Con telecamera e foto cerchiamo di riprendere al meglio ogni attimo, attenti a non disturbare l’intimità di quei momenti irripetibili. È l’inizio di una storia che ci auguriamo ricchissima di consolazione per tanti fanciulli d’Africa che qui potranno riscoprire la speranza...
La cena corre via alla svelta.
La giornata è già stata lunga a sufficienza ed è giunta l’ora di andare a dormire.



L’ingresso nella casa-famiglia è un fragore di esclamazioni stupite e allegre, e in un lampo i bambini prendono confidenza con il nuovo ambiente. Dopo pochi minuti ci sembra che siano sempre vissuti lì.
Il Baba, da buon papà, li accompagna uno per uno a sistemarsi nella propria brandina, in camere semplici e funzionali; noi, in punta di piedi lo seguiamo, lo filmiamo, «rubiamo» quante più immagini possibili.
Al di là di quanto si sta imprimendo su cassette e pellicole, la registrazione più bella è quella che stiamo facendo dentro di noi: quegli attimi di felicità incidono indelebilmente il nostro animo.
La vivacità, le grida e gli schiamazzi dei bimbi che corrono tra le camere e i corridoi, sono musica celestiale per le orecchie di padre Fulgenzio, che assapora intensamente momenti lungamente immaginati. La sua ispirazione prende ora concretezza dopo una gestazione travagliata, nella quale con il «solo» sostegno della Fede in Dio ha saputo superare ogni sorta di ostacolo. Lui ha ideato, pianificato e lottato, ha sopportato difficoltà enormi, che mai lo hanno fatto vacillare nella determinazione e nella perseveranza. Adesso, quei piccoli bambini africani che si stanno sistemando nelle brande portano nel Villaggio la gioia vissuta. Loro sono i primi, il leggiadro e vivace annuncio dei tanti che qui potranno riconciliarsi con la vita, sostituendo l’abbandono con l’opportunità di un’esistenza dignitosa.

Eccoci pronti per tornare in città; saliamo sul furgone e percorriamo sentieri dissestati che si incuneano in poveri villaggi, avvolti da fioche luci che illuminano il crepuscolo. Sono case di fango pulsanti di vita, dove le fiammelle di tante candele sopperiscono alla mancanza della corrente elettrica. C’è un alone di luce ovattata che avvolge quei gruppuscoli sparsi di capanne. Sarà l’emozione che ancora ci pervade, sarà che non siamo abituati a questa atmosfera quasi surreale, ma la luce che filtra dalle rudimentali aperture intagliate nelle pareti di paglia e terra, emana un calore di altri tempi, a noi ignoto. Ci fa pensare a persone intente a consumare un pasto frugale, ci fa intravedere gruppi familiari numerosi, riuniti nell’unica stanza a scambiarsi vicendevolmente quel calore umano talvolta raro nelle moderne case della società tecnologica. In questi giorni di Epifania, sembra che ciascuna di quelle misere capanne sia il luogo più degno nel quale adorare la nascita di Gesù nella martoriata terra d’Africa. Tutto sembra un presepio vivente, e al Villaggio della Gioia questa sera il Cristo è venuto a trovarci attraverso quei dodici teneri pargoli. Non siamo stati noi ad andare ad adorarLo; è Lui che ci è venuto incontro.



Il mattino di giovedì, nel Villaggio pullulante di svariate attività, i bambini sono ovviamente al centro dell’attenzione di tutti. Noi ramia siamo intenti ad addobbare la Chiesa e l’ostello con interminabili strisce di bandierine colorate, e da lontano scorgiamo il gruppetto dei bimbi che giocano sul cortile di fronte alla casa-famiglia. Ci giunge nitido quel vivace vociare e torniamo un po’ tutti bambini: verrebbe voglia di unirsi ai loro giochi, per stare in così allegra compagnia.

Da parte di tutti i volontari è però d’obbligo la discrezione; è importante lasciare che i fanciulli vivano indisturbati la presa di contatto con la realtà del Villaggio. Fin quando, inaspettatamente, baba Fulgenzio ci viene vicino, sfoggiando il sorriso di chi ben sa di darci una notizia graditissima: i piccoli per un paio di giorni mangeranno insieme a noi. Saranno ospiti all’ostello in attesa che la cucina della casa-famiglia acquisti la sua piena funzionalità.


All’ora di pranzo, la tavolata dell’ostello si riempie con i Don, i volontari, le suore e i bambini. Baba Fulgenzio, al centro della sala, è il ritratto della felicità, colmo di quella serenità che fa capolino soltanto nei momenti della vita in cui si è consapevoli di aver realizzato gli obiettivi per i quali si è lungamente combattuto… e sofferto!


Tutti i commensali sono colpiti dal rispetto con il quale i bambini porgono alle suore un piccolo bicchiere, per ricevere la loro dose di acqua. Quel semplice gesto, vissuto con tanta attenzione, è una lezione di vita vissuta, e ci trasmette distintamente il sommo significato che attribuiscono ad una risorsa indispensabile, che in questa terra d’Africa contiene in sé l’inestimabile valore insito in ciò che è necessario per sopravvivere.




Il pomeriggio ed i giorni seguenti trascorrono nei preparativi: i volontari si sparpagliano in vari gruppetti, occupandosi delle incombenze assegnate da padre Fulgenzio.
Noi ramia siamo stati incaricati di riordinare l’ala della scuola donata da Anima Universale al Villaggio della Gioia;





...a lato della porta d’ingresso avvitiamo anche l’apposita targa che padre Fulgenzio ci ha fatto realizzare a memoria della grande generosità di tante famiglie di Anima Universale che hanno reso possibile questa opera di solidarietà.
Sulla targa insieme al nostro logo campeggia ben visibile la scritta «Dio è l’Amore che tutto realizza… e chi ama può l’impossibile». Sono parole scritte dal fondatore di Anima Universale, Swami Roberto, che coincidono con la vita di padre Fulgenzio.

L’inaugurazione, giorno di festa (Testo tratto dal nostro libro "Appunti di vita di Baba Fulgenzio")

Ormai ci siamo, l’alba dell’11 gennaio è sorta, ed impazienti ci alziamo di buon’ora dalle brande; il vociare che arriva dall’esterno è un richiamo irresistibile e non vediamo l’ora di tuffarci nell’atmosfera elettrica del Villaggio già in fermento.



In primo piano ramia Osvaldo,
e sullo sfondo la First lady della Tanzania, sig.ra Mama M'kapa,
e l'ambasciatore d'Italia dott.Marcello Griccioli
Alle nove, tra due ali di bambini che applaudono, cantano e danzano festevoli, il Cardinale Polycarp Pengo e padre Fulgenzio entrano dal cancello principale e raggianti salutano la folla che già da un po’ di tempo li sta aspettando. In rapida successione, cominciano a giungere le prime autorità civili: l’Ambasciatore d’Italia S.E. dott. Marcello Griccioli prima, e poi la First Lady della Repubblica della Tanzania signora Ana M’kapa, accompagnata dal ministro per lo sviluppo comunitario e gli affari delle donne e dei bambini, signora Shamim Khan.








Alle dieci inizia la Messa, concelebrata dal Cardinale Pengo e da ben dodici sacerdoti. Nel suo intervento baba Fulgenzio pronuncia le parole da tutti attese, che incorniciano lo storico momento:





La celebrazione corre via veloce; uno tra i momenti più toccanti è quello in cui i dodici bambini, dinanzi all’altare, ricevono la benedizione dei celebranti. Loro guardano timidamente ma vivacemente in tutte le direzioni, frastornati da tanta attenzione che li avvolge: tutti li sentono un po’ come figli propri.




Gli avvenimenti incalzano. Usciamo rapidamente sul sagrato per il taglio del nastro ad opera del Cardinale: ora il Villaggio è ufficialmente aperto.



La visita ufficiale alla prima-casa famiglia.
Da sx a dx si riconoscono:
il card. Polycarp Pengo, ramia Osvaldo,
Mama M'kapa (First lady della Tanzania) e p.Fulgenzio
Poi la visita delle autorità alla prima casa-famiglia già abitata da qualche giorno, quindi i discorsi celebrativi ed infine il pranzo fornito con il catering. In un batter d’occhio i tavoli si gremiscono, per un pasto che è ulteriore occasione di comunione e fraternità tra tutti i presenti.



Qui il clima della festa è veramente strabiliante, in una spirale di entusiasmo che sembra investire ogni cosa.
Tutto è danza, espressione ritmata di felicità autentica, che nasce dal cuore.


Concludo oggi il racconto della nostra missione in Tanzania, in occasione dell'inaugurazione del Villaggio della Gioia, condividendo con tutti voi l'emozione di un momento bellissimo:
Durante il pranzo ufficiale con tutte le autorità civili e religiose, Baba Fulgenzio ci ha chiesto di telefonare a Leinì proprio durante il darshan di Swami Roberto, per ringraziare in diretta la grande famiglia di Anima Universale.
Padre Fulgenzio mentre sta ringraziando la grande famiglia di Anima Universale
Il momento della telefonata
con cui Padre Fulgenzio ringrazia
la grande famiglia di Anima Universale
E' stata una telefonata caldissima per il sole semi-equatoriale del primo pomeriggio tanzaniano, ma soprattutto è una telefonata che... a sentirla... riscalda il cuore.
Riascoltatela insieme a me.


Clicca qui per entrare nel sito di Anima Universale, ed ascoltare la telefonata (vai al secondo video, in fondo alla pagina)


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